Charitas Christi urget nos
Questo suo motto episcopale dominò la mente ed alimentò lo zelo del Vescovo Petagna. Durante l’esilio, nella luce dell’apparizione della Madonna de La Salette lesse l’altra espressione di S. Paolo: Completo nel mio corpo quello che manca alla passione di Cristo. La Madonna chiedeva preghiere e sacrificio. L’ascetica del grande Vescovo snodò questa dialettica: Sì, l’apostolato di Gesù fu più che necessario per fondare il Regno di Dio, ma il Salvatore ci ha redenti soprattutto col sacrificio cruento della croce, che si ripresenta e si riattualizza col sacrificio incruento dell’altare. Nei sacrifici non cristiani, il sacerdote ben si distingue dalla vittima. Gesù invece è, ad un tempo, vittima e sacerdote: è vittima del suo sacerdozio ed è sacerdote della sua vittima. Nel sacrificio cruento non si separa il sacerdote dalla vittima e perciò non è lecito separare la vittima dal sacerdote nel sacrificio incruento, ossia eucaristico. Lo Spirito Santo trascrisse nel cuore del nostro Vescovo la preghiera della Santa Messa ostia pura, ostia Santa, ostia immacolata. Ostia ha lo stesso significato che vittima. Il Servo di Dio dedusse: sarò ostia con Gesù Ostia; vittima con Gesù Vittima. L’esilio imprigionerà parte delle fiamme apostoliche, ma potenzierà a dismisura lo stato di vittima, il quale completerà ciò che mancava alla passione di Cristo: il Vescovo sarà collaboratore del Redentore! Mons. Petagna vide l’esilio come il trampolino di lancio per volare nel cielo della Redenzione e si salvò dall’angoscia, in cui l’avrebbe certamente prostrato la lontananza dalla diocesi, sua sposa. Questo processo mistico non si spiega, se non si tiene conto del messaggio della Madonna della Salette, che il grande vescovo assimilò perfettamente con la mediazione della veggente Melania.
La formazione non è mai a senso unico e questo è vero anche nella direzione spirituale che mons. Petagna impartì alla pastorella de La Salette. Il padre spirituale, col dono del discernimento, riconobbe l’autenticità dell’apparizione e guidò la veggente sul sentiero della perfezione cristiana; la veggente, a sua volta, con la semplicità umana e con la saggezza soprannaturale, aiutò il padre spirituale ad assimilare in grado superlativo il messaggio della Madonna in lacrime, messaggio che si potrebbe sintetizzare brevemente così: col sacrificio aiutate mio Figlio a salvare le anime, che, allontanandosi da Dio, precipitano nel buio ghiacciato. Il grande collaboratore del Redentore sentì prepotente il bisogno di creare una Congregazione in cui potesse trasfondere il suo spirito e sorse così la Congregazione delle Suore Vittime dei Sacri Cuori di Gesù e Maria. Potremmo dire che il carisma caratterizzante il nostro Santo Vescovo nacque nei fulgori dell’apparizione della Madonna alla Salette e ora si potrebbe definire così: il carisma che trasforma il battezzato in vittima con Gesù Vittima sull’altare e permette allo Spirito Santo di bruciarne l’intera esistenza per la gloria di Dio e per la salvezza dei fratelli. La carità, che spinge nell’apostolato la vittima, la brucia poi in letizia: laeta adurat charitas. Il Fondatore esorta così le figlie a cui trasmette il suo carisma. Le vittime del cuore di Gesù, cioè i martiri del suo amore, debbono rivolgersi incessantemente alla Vittima d’infinità carità, dimorante, sempre viva, in mezzo a loro nei santi tabernacoli. Lo stare innanzi a Gesù sacramentato in adorazione, che van facendo giorno e notte per turno, secondo il disposto dai superiori, non è da dirsi un’opera dell’Istituto, ma l’anima che ispira e dà vita a tutte le opere di carità, nelle quali piacerà a Dio di adoperarle. E queste svariate opere, in cui si eserciteranno a bene dei prossimi, non debbono considerarsi altrimenti che come un alimento continuato ed un caldo sfogo di quell’ardore, che attingono dall’amoroso petto del Prigioniero d’amore. Quanto è sublime questa definizione che il nostro mistico ci dà dell’apostolato! Caldo sfogo dell’amore eucaristico. Lo stato di vittima con Gesù Vittima, come si è detto, ha tre finalità sublimi: espiare le offese che si infliggono a Dio, Infinito Amore e tre volte Santo, con i peccati innumerevoli ed abominevoli; amare Gesù anche per la maggioranza degli uomini che non lo conoscono o non lo riconoscono loro Redentore; collaborare con Gesù affinché l’Amore sia amato e tutti entrino beati nella casa del Padre.
Il nostro Vescovo mistico esclama: Quanto dovrebbe di continuo penetrare sulla terra ogni mente e dominare soavemente ogni cuore questo magnifico mistero che è Gesù Cristo, vittima di infinita carità immolata per gli uomini. Lo Spirito Santo con la sua carità, che è fuoco divino, incendia l’anima amante di Gesù e la trasforma in oblazione e ostia come dice S. Paolo: Camminate nell’amore nel modo che anche Cristo vi ha amato e ha dato se stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio di soave odore. Chi sta unito allo Spirito Santo ed è un solo spirito con lui viene trasformato in una copia conforme alla Vittima del Golgota. A misura poi che l’anima si inoltra nell’intimità col Sacro Cuore “quella copia risulta più chiara, quel ritratto si fa più perfetto, quell’immagine diviene più viva. Quell’anima beata si vuole nascondere interamente nel Cuore divino e perdersi interamente nell’Amato, spendere la propria vita per Lui che immolò la sua per lei”. Quell’anima celestiale ha una sola ambizione: essere incenerita vittima sul medesimo altare della croce. Siccome il talamo nuziale è la croce, l’anima, sposa di Gesù, va ripetendo con l’innamorato Paolo: Per mezzo della croce il mondo per me è stato crocifisso come io per il mondo44. Si può vivere e celebrare il sacerdozio dei fedeli meglio di così? Quando l’intimità con Gesù diviene perfetta, la sposa del Crocifisso può ripetere ancora con S. Paolo: Voi avete l’impressione che sia io che viva, invece non sono più io che vivo, ma è Gesù che vive in me. La ragione umana pensa che lo stato di vittima spenga la gioia, invece esso innalza l’anima ad una letizia preparadisiaca. Se la vittima d’amore respira l’aria natia del Calvario, se si adagia su quel letto nuziale della croce, dove è disteso l’unico vero amante degli uomini, Gesù Cristo, trova, fra i casti amplessi del suo cuore col Cuore divino, gradito e dolce l’amare nella sofferenza e il soffrire nell’amore. Per la vittima d’amore stare raccolta in quel Cuore squarciato è anticipo di Paradiso, e la mistica morte è la vera vita. Lo stato di vittima dà un tocco delizioso e caratteristico all’essenza dei voti religiosi. Il nostro vescovo fonde il culto di tre cuori: il Cuore di Gesù, il Cuore della Madonna ed il Cuore di San Giuseppe. In realtà egli, da bravo teologo, sa molto bene che i tre cuori palpitano a livelli molto diversi e ce lo spiega.
L’unico oggetto, il quale deve avere ampio ed intero possedimento del cuore delle Vittime, è l’adorato Cuore di Gesù, ed i cuori di Giuseppe e Maria sono da considerare come mezzi di aiuto e di stimolo, fornitici da Dio, per poter meglio avvicinarci al Divin Cuore adorabile del Redentore. In secondo luogo sono tali le amabili doti e sante virtù di Maria e Giuseppe, e siffattamente i loro Cuori battono all’unisono con quello di Gesù, che dirsi possono un sol cuore ed un’anima sola. Per tal modo la famiglia della casa delle vittime dei Sacri Cuori di Gesù, Giuseppe e Maria, deve andar sempre modellandosi sulla santa famiglia di Nazareth, e questa dovrà tenersi da quelle sempre dinanzi agli occhi, come terso e vivido specchio di purissima luce, che riflessa nei loro cuori, vi formerà somigliantissima e santa immagine della beata unione in terra di quei sacratissimi Cuori.
Queste riflessioni sono vere per la famiglia religiosa e sono ancor più vere per la famiglia naturale. Il nostro mistico ammira nella Madonna il perfetto modello della Vittima d’amore e lo addita alle sue figlie ed ai suoi fedeli. Il Sacro Cuore di Gesù va meditato di continuo; rammentando che questo fu il precipuo studio di Maria: conoscere cioè il SS. Cuore di Gesù per potersi interamente conformare. Quando lo Spirito Santo riempie il cuore delle vittime, che vivono insieme, allora la comunità riproduce quella dei primi cristiani, che formavano un cuore solo ed un’anima sola. Le anime elette che vivono da vittime si sforzano di penetrare nell’intimo di quella Vittima infinita ed esclamano voler essere chiamate ed addiventare vere vittime del Sacro Cuore di Gesù. Queste creature d’eccezione prevenute dalla divina grazia, favorite da particolare vocazione, chiamate alla più intima ed amorosa sequela di Gesù, lo seguiranno dappertutto e sempre, fedelmente per il Calvario, sulla Croce e, se è necessario, alla morte. Si capisce, alla morte d’amore. Tutta l’ascetica del nostro Vescovo Santo è pervasa dal primato dell’amore. Potremmo dire che essa, più che anticipare, è addirittura uno splendido commento al Decreto sul rinnovamento della vita religiosa emesso dal Concilio Vaticano II. Non per altro questo documento si intitola Perfectae Caritatis. Dalla carità emanano tutte le altre virtù, come acqua da fonte e, quando la carità diviene perfetta, scrosciano le beatitudini che sono un saggio di Paradiso.
Il nostro grande devoto della Madonna si affida con la fiducia del bimbo alla madre celeste e va esclamando: Madre nostra, un sospiro solo del vostro potentissimo Cuore verso quello di Gesù può renderci appieno consolati e felici per tutta l’eternità. Il nostro Servo di Dio alle anime vittime del Sacro Cuore non si stanca mai di ripetere: Quel Cuore, figlioli miei, vittima della sua ardentissima carità, sta con noi in terra, vicino a noi, nelle nostre Chiese. Andate dunque spesso a visitarlo, spesso ad accoglierlo nei vostri petti sacramento per noi. Ricevendolo spesso nei nostri cuori, la voce del suo sangue griderà dalla terra verso Dio… e ci userà misericordia. Gesù Sacramentato è il sole della “dilezione scambievole” che per il nostro fondatore, se non l’unica, è certamente la prima condizione dell’Apostolato. L’afferma lo stesso Gesù: Conosceranno tutti che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri. Dall’Eucaristia, dove palpita vivo e vero il Cuore di Gesù Risorto, le vittime attingono la carità che le spinge irresistibilmente all’apostolato. L’Amore, che bevono a larghi sorsi da questa fonte perenne, le rende ogni ora maggiormente bramose di concorrere con l’opera loro al bene delle anime per vederne grandemente glorificato Iddio. Nella casa di Nazareth non vi era niente affatto, che sentisse di predominio di umana volontà; signoreggiava in quella unicamente, e sempre da padrona, la volontà di Dio. Questo trionfo totale e perfetto della divina volontà deve regnare ancora nella casa delle Vittime.
Alla Comunità, che riproduce la famiglia di Nazareth, non deve assolutamente mancare “la bilancia dell’eternità” che deve pesare ogni azione: non ha alcun valore ciò che non serve per l’eternità! Non scoraggi la parola vittima. Nella spiritualità del Petagna essa è, sì, vittima, ma vittima d’amore che ci fa naufragare nell’oceano dell’Eterno Amore, cioè della beatitudine eterna. Tale vittima privilegiata comincia ad atteggiare il volto, sin da questa valle di pianto, ad un riso celeste e presentare nel cuore una gioia di paradiso, chiamata da S. Tommaso beatitudine “incoata”, ossia iniziata. Questa raccomandazione, che il fondatore fa alle sue suore, rivela la delicatezza tenerissima del suo cuore. Le vittime dei Sacri Cuori provvedono alla cura delle cappelle e degli altari con quell’amore e diligenza con cui la Vergine Santa ebbe cura del suo Divin Figliuolo. Vittima: questo vocabolo, ai nostri giorni, purtroppo è stato laicizzato. Si dice, per esempio, che i ragazzi sono vittime della società corrotta e sono perciò vittimizzati. Ma, nella Bibbia e nell’animo del nostro Vescovo mistico, la parola vittima è aureolata di gloria e profuma del Sangue di Gesù.
Gli abissi dell’amore infinito
Per comprendere la spiritualità del nostro Vescovo bisogna tener presente che egli, come pochi del suo tempo, intese ed amò la Chiesa come Corpo mistico e sposa di Gesù. Allora si pensava alla Chiesa soprattutto come società perfetta. Egli, imbevuto dello Spirito di San Paolo, venerava la Chiesa “come una novella e misteriosa incarnazione del Cristo”. Attinenza poi intima, è quella che passa fra l’anima cristiana amante e Gesù Cristo amato. Formatasi Egli, dal suo aperto costato sulla croce, una Chiesa pura, santa, immacolata, divenne Capo di questo suo mistico corpo, Sposo di questa sua dilettissima sposa. Ed è tale la virtù che si trasfonde da quel Capo (Cristo), in quel corpo, (la Chiesa), tanta la misteriosa forza che unisce quello Sposo divino all’amata sua sposa, talmente valida la medesimezza d’affetti, di sentimenti, di vita che stringe l’Uno all’altra, da potersi dire mirabilmente entrambi una sola cosa. Dunque la passione di Gesù continua nel suo Corpo mistico, che è la Chiesa, ed il nostro Vescovo ripete appassionatamente con S. Paolo: Completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo a favore del suo Corpo che è la Chiesa. I suoi patimenti sono la continuazione dei patimenti di Gesù. Il sacrificio del Golgota, che il nostro Pastore chiama sacrificio cruento, si ripresenta nel Sacrificio eucaristico, che egli chiama incruento. Dunque egli, partecipando all’incruento, partecipa anche al cruento e così diviene vittima con Gesù Vittima, ostia con Gesù Ostia. Il nostro Vescovo mistico si inebria quando, durante la Santa Messa, prega: ostia pura, ostia santa, ostia immacolata. Tale è Gesù e tale deve diventare anch’egli, che, mediante l’Eucaristia, unisce la sua vita a quella di Gesù immolato.
La Chiesa è la Sposa perfetta dello Sposo Gesù e perciò rivive in sé, con passione amorosa, gli stessi sentimenti del Redentore. A sua volta, anche l’anima è sposa di Gesù, perciò deve riprodurre in sé ciò che palpita nel Cuore della Chiesa. “Attinenza intima, speciale, eccelsa è quella che passa tra l’anima cristiana amante e Gesù Cristo amato”. L’anima innamorata di Gesù deve perciò essere, sia pure in miniatura, una copia conforme della Chiesa. Da questo stato di fatto, S. Paolo deduce ed esorta: Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù. Di qui sgorga la passione del nostro Pastore: mettere il proprio cuore in perfetta sintonia col Cuore di Gesù. Egli, meditando, contemplando e struggendosi d’amore per quel Cuore divino, subisce le vertigini dei quattro abissi dell’Amore Infinito.
Primo abisso dell’Amore: Il Verbo si è fatto carne! Il buon Dio, tocco da compassione verso questa ingrata creatura, nelle Viscere di sua infinita misericordia, volle mandare il suo Divin Figliuolo sulla terra il quale, vestito della carne dell’uomo peccatore, e gravato della soma dei peccati di tutti gli uomini, potesse soddisfare coi meriti infiniti di Uomo-Dio la divina giustizia, placare l’ira, che doveva versarsi esternamente sui miseri mortali e riformare la perduta immagine di Dio nell’uomo, meglio di quel che fosse prima difformata, reintegrandolo nei suoi perduti diritti di grazia, di amore, di gloria. Iddio, che aveva formato l’uomo mirabilmente, lo redense ancora più mirabilmente.
Secondo abisso dell’Amore: da Betlemme al Calvario. Il nostro Vescovo asceta aveva fatto sua questa gustosa meditazione del venerabile Arcieri, il quale soleva mettere Gesù Bambino ai piedi del Crocifisso e, portando lo sguardo dall’uno all’altro, esclamava, gemendo: Eterno Padre, voi me lo avete dato sì vezzoso ed io ve lo rendo così lacerato. Si sente come un’eco dei palpiti del cuore di S. Alfonso!
Terzo abisso dell’Amore: dal Golgota all’Eucaristia. Lì scomparve la divinità e apparve solo l’umanità di Gesù, qui addirittura scompare anche l’umanità. Però il Cuore di Gesù è vivo e vero sotto i veli eucaristici e la sua ferita è il sole della storia. L’Eucaristia è la calamita delle vittime. Gesù è contemporaneamente in cielo col Padre suo ed è sulla terra con noi. O invenzione ammirabile dell’amore! La gloria tutta del cielo non avrebbe potuto appagare il Cuore di Gesù, se non avesse potuto possederla che a costo di separarsi da noi! O abisso di amore!
Quarto abisso dell’Amore: noi da redenti siamo abilitati ad essere corredentori con Gesù, unendo il nostro sacrificio al Suo. Il Vescovo mistico non si stanca di ripetere: Innestiamo il nostro cuore a quello divino di Gesù. Questo innesto, che forma l’incanto dei Serafini, si opera nel Sacrificio eucaristico dove, come l’acqua si vinifica, il nostro sacrificio si cristifica. Il soave ardore della Vittima divina si comunica alla vittima umana a lode e gloria della Santissima Trinità. La vittima d’amore, unita misticamente a Gesù mediante l’Eucaristia, partecipando al Sacrificio d’infinito valore, all’Agnello divino ucciso per togliere i peccati del mondo, diventa anch’essa oblazione monda ed accettevole a Dio. Potremmo definire così il Santo. Un’anima che in corpo mortale vive da ardente innamorata di Gesù. Non importa che il corpo sia maschile o femminile. In verità tra le anime impazzite d’amore fiammeggiano quelle di S. Paolo e di S. Francesco. Tra queste si inserisce bellamente quella del nostro Servo di Dio. I suoi scritti ascetico-mistici rivelano un innamoramento molto simile a quello di S. Caterina da Siena e di Santa Teresa d’Avila ed hanno già i colori dell’aurora che sta per sorgere con S. Teresa del Bambino Gesù e con Santa Faustina Kowalska. La vittima d’amore per il nostro Vescovo non si riferisce solo alla giustizia, ma anche alla Misericordia. Per il nostro asceta si vive da vittima, non solo per placare la collera divina, ma anche, soprattutto, per bruciare nella fornace dell’ardente carità del Cuore di Gesù e nell’offrire a quel Cuore la possibilità di liberarsi. S. Caterina ricorrerebbe all’immagine di una straordinaria ricchezza di latte, che opprime il seno della madre e che ha estremo bisogno del bambino che succhi. Il nostro mistico sente che il Cuore di Gesù dev’essere liberato dall’amore misericordioso che l’opprime. L’anima se permette alla pienezza infinita di quell’amore di abbattersi su di sé, morrà uccisa dall’amore.
Il bel Pastore
Il giovane Vescovo apparve ai fedeli come anima sinfoniale. I fondatori della salubre cittadina la chiamarono Stabia cioè fermata, stazione, riposo. Il nostro Vescovo non si fermò, ma si inerpicò sul monte santo di Dio più alto del Faito, sprigionò uno straordinario dinamismo apostolico e non concesse riposo al suo apostolato. Il nostro Pastore sapeva molto bene che la carità inizia dove termina la giustizia e che la giustizia è il piedistallo del Vangelo. Il Vescovo ha l’ufficio di insegnare, di santificare e reggere; Monsignor Petagna insegnò con ardore, santificò con la vita e resse con la sapienza del cuore. Benché tanto giovane, si sentì subito padre e fu padre per diventare meglio pastore. Fu esperto nel dialogo con i sacerdoti. La parola dialogo era ancora al di là da venire nell’esercizio del governo. Monsignor Petagna invece sentiva tutti, proprio tutti, e poi decideva lui, dopo aver pregato a lungo. Seguiva molto bene il consiglio di S. Gregorio Magno: Vedi tutto, fingi di non aver visto molte cose e correggine solamente alcune. Egli parlava con gli altri e non degli altri. Il palazzo vescovile divenne ben presto la casa dei sacerdoti e rimase sempre aperta ai poveri. Paolo VI disse a Jean Guitton: Il Papa deve sapere soprattutto le cose che non si dicono al Papa. Questo è vero anche per i Vescovi e il nostro ben lo sapeva. Mons. Petagna si svuotò del mio e dell’“io”, si riempì di Dio e si donò ai fratelli. Il Vescovo si serviva del diritto canonico per regolare la giustizia, ma aveva il Vangelo come sorgente della carità. Egli coniugò meravigliosamente questi tre verbi: accettare, donarsi, far crescere. Con molto anticipo sul Concilio Vaticano II riconobbe il ruolo dei laici nella Chiesa e accordò loro paterna fiducia.
Apostolato Paolino
Il nostro Vescovo aveva radicata la verità del Corpo mistico e perciò aveva una visione organica dell’apostolato. Nel lavoro per il Regno di Dio devono essere impegnate tutte le membra del Corpo mistico; ognuna nel suo ruolo e tutte concordi. Prima che sorgesse l’Azione Cattolica il nostro Apostolo ebbe un intuito particolare nel riconoscere la collaborazione dei laici all’apostolato gerarchico: Venite in mio aiuto, sollevatemi da questo pesante fardello e tenetevi sempre con me accompagnati per portarlo. Vivete bene. Rianimate del vero spirito cattolico la vostra vita e ridestatelo a nuovo e più alacre cammino nella virtù e nella santità. Dobbiamo realizzare la verità nella carità. Questo programma paolino era il suo ideale.
L’humus di Dio
Il nostro Vescovo Petagna afferma con sicurezza e vive con fervore queste verità che annuncia. Un’anima che non è sommamente compenetrata del proprio niente, anzi del suo essere addivenuta peggiore del niente per la colpa, non potrà mai essere buona a qualche cosa di grande per Dio. Il suo cuore non sarà mai fertile di grandi virtù. Umiltà deriva dal latino humus che significa terreno fecondo. Infatti l’umiltà è il terreno fecondo in cui prosperano tutte le virtù. Nel nostro Vescovo l’umiltà è ben proporzionata alla sua statura gigantesca. Il padre Cassinese don Michele Morcaldi voleva dedicare un suo discorso stampato al Vescovo Petagna, questi gli rispose: Né può il mio nome aggiungere altra grazia al suo lavoro, che quello di far più chiara la di lei modestia, accontentandosi di un inetto, cui intitolarlo. La povertà più bella del Servo di Dio fu la perfetta privazione d’orgoglio. Infatti, nelle ultime ore della sua sublime esistenza, sfolgorò come un sole la sua umiltà. Prima di ricevere il Viatico con sommo fervore, chiese perdono ai suoi figli con queste testuali parole: Io chiedo perdono a tutti, perché non ho saputo mai fare il Vescovo. Ma dopo S. Catello non era stato proprio lui il Vescovo più simile a Gesù?
Amore divino
“Da questo abbiamo conosciuto l’amore: Gesù ha dato la vita per noi; quindi noi dobbiamo dare la vita per i fratelli”. Questa osservazione di S. Giovanni costituiva la bussola con cui il nostro Vescovo navigava nel mare tempestoso del suo tempo. Ed egli, ad ogni ora del giorno e della notte, era pronto a dare la vita come vittima d’amore all’Eterno Amore. Durante il colera il Vescovo Petagna emulò il Borromeo del Manzoni e, più ancora, il Samaritano del vangelo. La povertà, sua seconda natura, in realtà era espressione della carità. Virgilio e Manzoni, tra le quattro stagioni, prediligevano l’autunno. Ecco il motivo: è la stagione che è diventata povera perché ha tutto donato. Mons. Petagna come l’autunno era povero perché aveva donato tutto. Egli comprendeva molto bene che esistono molti tipi di povertà e non riduceva l’uomo ad una sola dimensione, quella economica. Carità ed umiltà, combinate insieme, generano la forza più potente del pianeta. Egli soccorreva senza umiliare. La carità chiude gli occhi ed apre le braccia. Monsignor De Jorio raccontava questo episodio patetico. In una povera stanzuccia viveva la vecchia madre e la figlia nubile, ormai sfiorita e triste perché la povertà era diventata miseria. Lei nobile decaduta, non aveva il coraggio di chiedere l’elemosina ed aveva venduto l’ultimo oggetto di un certo valore: una veste di seta che le era tanto cara. Il Vescovo lo venne a sapere, si intenerì, comprò la veste venduta, e segretamente la fece pervenire nelle mani della povera signorina, insieme ad una bella offerta, che risollevò dalla miseria la vecchia e la figlia. Il Vescovo, successore del nostro Servo di Dio, commenta: Ecco la carità del Presule! Tutto dava generosamente, riducendo se stesso a dure ristrettezze economiche, sino ad aver bisogno del soccorso altrui.
Scelta preferenziale
Il nostro Vescovo adora Gesù sotto i veli eucaristici e lo serve sotto i veli mistici. I veli mistici, sotto i quali Gesù si nasconde più volentieri, sono i poveri, perciò il nostro Servo di Dio preferisce questi ultimi. La scelta preferenziale per i poveri nel cuore del Vescovo Petagna vampeggiava molto di più di quanto bruciava nei petti dei migliori socialisti del suo tempo. Da notare che la fiamma di amore del vescovo era allo stato puro, perché perfettamente priva del fumo dell’odio per i ricchi. Il Servo del Vangelo sapeva alla perfezione che chi si schiera per i poveri si schiera dalla parte di Dio. La giustizia sociale non era assolutizzata e, tanto meno, ignorata dalla carità del nostro Vescovo. Egli ben conosceva e difendeva con coraggio i diritti della persona umana e non pensava giammai di sostituirli con l’elemosina. Questa, se ignora i diritti, non è cristiana e si riduce a tranquillante della coscienza. La giustizia sociale il nostro Vescovo l’attingeva al Vangelo e la sentiva non meno rovente di quanto non la sentano i sindacalisti moderni, salvo poi a promuoverla con carità, e non con la lotta violenta. La giusta mercede agli operai fa parte della morale cattolica da sempre; non occorreva il marxismo per scoprirla.
Respiro dell’anima
Il nostro Vescovo era contemplativo che gustava la preghiera. Egli ne parla con conoscenza sperimentale, la vede come un dono in cui Iddio racchiude tutti i doni, la chiave che ci apre i tesori del Cielo, il canale che li comunica, la molla che fa agire la divina misericordia, la mano che preme il seno di Dio, come s’esprime S. Agostino, per farne scorrere su di noi il latte della sua grazia. La preghiera fu e sarà sempre quell’arcano linguaggio che perennemente serberà la scambievole intelligenza fra il Cielo e la terra, quel soave profumo di gradito incenso, che si leverà fino al trono dell’Altissimo per farne discendere le copiose misericordie sui mortali, quella scala misteriosa per cui gli angeli tengono sempre animata la corrispondenza dei cuori fra Dio e l’uomo. Gesù, se raccomanda a tutti i suoi discepoli la continuata preghiera con formule calde, varie, ripetute, non intende però lasciarli soli nel farla; ma portando seco nel Cielo i possenti titoli delle sue piaghe, accompagna alle nostre sulla terra le sue supplichevoli voci del Cielo, facendola sempre innanzi al Padre da avvocato ed intercessore per noi. Advocatum habemus apud Patrem, diceva il diletto Giovanni.
Speranza certa
La carità del nostro Vescovo è una carità affamata che aspira, notte e giorno, alla carità soddisfatta del Paradiso. Egli lavora con i piedi per terra, ha il cuore nel tabernacolo e il pensiero fisso al Paradiso. Con convinzione, che cresce con l’età, va ripetendo: Il cristianesimo è scuola e professione di vita celeste; sulla terra siamo ospiti, pellegrini, viandanti. Il cielo è la nostra patria, la terra il nostro esilio; quella il soggiorno del riso, questa la valle del pianto; quaggiù è la seminatura del tempo; lassù la mietitura dell’eternità. Perciò il vero cristiano usa e si serve delle cose temporali e terrene senza perder mai di mira le eterni e celesti. Dobbiamo respirare l’aria del Cielo, nostra Patria, di cui siamo cittadini.
I vincoli dell’amore
Dei voti religiosi il nostro Servo di Dio ebbe una concezione originale. I voti autentici scaturiscono dalla perfetta imitazione di Gesù, amato quale sposo dell’anima, e l’imitazione scaturisce dall’intensità dell’amore. Le suore Vittime dei Sacri Cuori si riterranno consacrate in modo speciale all’imitazione del Nostro Signore e dietro di lui, verranno a comprendere che loro peculiare patrimonio è la povertà dal momento che il loro Divino Modello volle nascere in una stalla; l’obbedienza e il patimento la loro sorte, essendosi fatto il loro Maestro obbediente fino alla morte di croce; e finalmente lor tesoro la castità, formando questa la gloria e la delizia dello Sposo Celeste, e richiamando su di essa speciale sguardo di predilezione. L’anima sposa di Gesù non cammina, ma sulle ali dell’obbedienza vola. Quando l’anima giunge a perdere interamente la propria volontà in quella di Dio… allora ella non vive più di sua vita propria, ma, vivendo la vita del suo Sposo Divino, addiviene un olocausto perfetto, una perfetta vittima immolata a Dio con Gesù Cristo. Quando le volontà di coloro che fanno vita comune si fondono nella volontà di Dio, si gode un anticipo di Paradiso. Il trionfo della divina Volontà deve regnare nella casa delle vittime. Queste, soprattutto non perdano di mira Gesù nel Sacramento, che al cenno dell’uomo vi discende dal cielo e si lascia prendere, portare, riporre nel Tabernacolo per darci un esempio di perfetta ubbidienza. La obbedienza, se è sublime, per il nostro mistico deve emanare un profumo eucaristico. L’amore allo sposo Crocifisso spoglia la suora di ogni avere, le lascia solo la libertà e lei è felice di offrire anche questa a Gesù mediante il voto di obbedienza. Gesù salì sulla croce completamente nudo, ma ricco di infinito amore. L’anima sposa di Gesù per giungere a questo interno spogliamento cerca di prender di mira la povertà del suo sposo Gesù nella stalla di Betlem, sulla croce ed in Sacramento. Con la Santa Comunione il nostro corpo si unisce a quello di Gesù e con lui diventa un’unica offerta alla Santissima Trinità: ostia immacolata con l’Ostia Immacolata. Soprattutto con la Santa castità si diventa lode di gloria. Le anime elette, dietro l’esempio di Gesù, comprendono che la castità è il loro tesoro, formando questa la gloria e le delizie dello Sposo Celeste, e richiamando su di esse speciale sguardo di predilezione. Mostratevi a Cristo Vergini caste, prudenti e vigilanti nel provvedervi di olio di buone opere, e nell’ornare le lampade dello spirito vostro, affinché quando venga lo Sposo possiate uscirgli incontro ed entrar con Lui nella casa delle nozze. Con il voto di castità si attua in pienezza l’esortazione di S. Paolo: Vi esorto, fratelli, ad offrire il vostro corpo come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale. In sintesi: la castità è immolazione e servizio.
Apologeta d’alto livello
Il nostro apologeta, che ha molto di Tertulliano, possiede una dialettica, che nulla perdona e nulla ha da farsi perdonare. Però il suo stile non è una fredda lama del pensiero, ma è anche caldo appello del cuore. Secondo il nostro Vescovo, Gesù, per guadagnarsi la mente, si rivolge al cuore. Se si colpisce il cuore si inchina la testa! Il nostro Vescovo non è un conservatore; non è fanatico delle tradizioni, ma è fortemente innamorato della Tradizione! Sa molto bene che nel futuro batte il cuore antico e che chiunque mette il presente contro il passato, perde il futuro. Egli si nutre abbondantemente della Sacra Scrittura, che legge con gli occhi dei Santi Padri; è convintissimo che il Vangelo è più attuale di tutte le attualità. Il nostro apologeta difende la dignità della persona umana, i principi dell’etica umana e i diritti della Chiesa. I valori di eguaglianza, fraternità e libertà il nostro Servo di Dio li vedeva come frutti del Vangelo e non della Rivoluzione francese. Quei frutti, staccati dalla croce, che li produce, marciscono e non nutrono più la società. La libertà diventa libertinaggio, la giustizia guerra civile e la fraternità ambizione politica. Il trinomio è come il tripode che sostiene la società, questa cade appena cade uno dei tre piedi. Circa la libertà il nostro apologeta afferma: L’uomo che non vive una vita di spirito, a cui manca la grazia di Dio, non rispetterà giammai la libertà altrui, e neppure egli sarà libero davvero. Il nostro Vescovo, non meno di Kant, è convinto che la persona umana è sempre fine e mai mezzo. È necessario dapprima avere la giusta conoscenza, ed un profondo sentimento della nobiltà e dignità dell’uomo, onde rispettarlo come cosa sacra, e non tenerlo avvilito e farne basso governo. Il nostro Servo di Dio profetizza così circa l’etica del profitto. Quando si rifiutano i beni morali della virtù, come base forte e stabile della società, e si preferiscono i beni materiali con febbre insaziabile di guadagno nel commercio e nell’industria; allora la società, sia la più florida per materiale progresso, si va lentamente logorando nella sua parte vitale, col germe del vizio e d’immoralità d’ogni guisa; ed un bel giorno il gran colosso dai pie’ di fango crollerà, risolvendosi in polvere, e subissando tutto e sparendo nella voragine di spaventevole sconvolgimento. Quando si sono abbattute le dighe della carità cristiana, e le parole del Vangelo non scendono più come dolce balsamo nel cuore del popolo, allora questo, spinto solamente dalla voluttà e cupidigia, addiviene barbaro, selvaggio, anzi furia d’inferno. La grande piaga della società è la fame dell’oro: il far quattrini è il fine per lo quale tutti i mezzi sono buoni, oppure, se si vuole, il mezzo per giungere al fine che è l’appagamento delle proprie passioni. Ed allora gli uomini tutto vorranno sacrificato a quest’idolo: ragione, coscienza, legge, anima, Dio. Per il nostro apologeta è sacrosanta verità che la ragione e la fede, promanando tutte e due da Dio, non possono assolutamente contraddirsi, e tanto meno elidersi. La pensava proprio così il sommo scienziato Galileo; dunque si sentiva in buona compagnia quando scriveva: Derivando da Dio ugualmente la ragione e la fede, non possono essere queste fra loro contrarie: parti del medesimo seno, ruscelli del medesimo fonte, raggi del medesimo sole debbono avere fra loro naturale attinenza e non mai opposizione.
A partire dal 1870 il nostro Vescovo utilizzò tutti i ritagli di tempo per comporre la sua opera classica, capolavoro d’apologeta La scienza Cattolica che fu pubblicata postuma dal suo santo successore Monsignor Vincenzo Maria Sarnelli, il quale stilò questa presentazione: Io, a soddisfazione del mio cuore, ho raccolto i fogli di quest’opera, conservati in una Comunità Religiosa, li ho uniti in un bel volume e li offro a voi, sacerdoti della mia diocesi. Il nostro Vescovo era un comunicatore mirabile, e superdotato della sapienza del cuore. Con la sua parola, che traduceva facilmente e felicemente la Sacra Scrittura, il Pastore riscaldava i cuori e illuminava le menti; rischiarava e rasserenava. Si potrebbe dire anche del nostro Pastore ciò che la Chiesa dice del profeta Elia: la sua parola bruciava come fiaccola.
Dolcezza e Speranza nostra
Dio è onnipotente per natura, la Madonna è onnipotente per grazia. Nel cuore del gran Vescovo questa verità, trasmessa dalla tradizione, splendeva come un sole. Noi siamo figliuoli adottivi di Maria, raccomandati a lei da Gesù sulla croce, e perciò cari al cuore di questa tenera madre come se guardasse in ciascuno di noi un altro Cristo. In conseguenza la Madonna ha tale un potere, una saggezza, una pietà, tale una commiserazione, una brama, e direi pure un bisogno a farci del bene, da doversi aspettare giustamente da noi la più sincera fiducia, la più sentita corrispondenza, la più tenera ed infocata devozione. Salutiamola sovente con l’angelico saluto Ave Maria, siccome faceva Bernardo, che sentì in ricambio: Ave Bernardo. Volgiamoci sovente a Maria Immacolata nelle grandi afflizioni di oggi; e questa Onnipotenza supplichevole, come la chiamano i Santi Padri, ed a cui tutte le miserie umane sono debitrici di tante consolazioni, di tanti sollievi, di tante misericordie, farà sperimentare ancora a noi il conforto della sua potente intercessione. Per fiorire nella santa purità e spandere buon odore di virtù debbono tutti professare una devozione singolarissima alla Madre di Dio e specialmente sotto il titolo della Immacolata. Senza la devozione alla Madonna non si spiega l’evento Petagna.
Ingresso nella casa del Padre
L’otto agosto del 1876 per la prima volta la città celebrò una festa esclusivamente civile. Si varava la nave Duilio, che risultò un vero prodigio realizzato dalla tecnica d’avanguardia dei famosi cantieri navali di Castellammare di Stabia. Il Re Vittorio Emanuele II, con la sua presenza, volle onorare la cerimonia che mandò in visibilio la folla. Il Vescovo non intervenne. La coscienza non gli permetteva di festeggiare l’usurpatore dei beni del Papa; però, per la morte dello stesso re, officiò in Cattedrale un rito solenne; ma allora Pio IX aveva detto: Io farò di tutto perché Vittorio Emanuele si presenti al tribunale di Gesù Cristo col mio perdono. Il cuore del nostro vescovo era in perfetta sintonia col cuore del Romano Pontefice. Il lungo esilio aveva prodotto dei guasti nel bell’organismo del Vescovo, che nell’agosto del 1869 andò per le cure termali nell’isola di Ischia. Di lì scrisse al clero: L’amicizia ecclesiastica, che conosce il suo nodo e il suo centro in Colui che disse: vos amici mei estis,è la più bella sulla terra. L’amicizia sacerdotale per il nostro Pastore era una delle dimensioni del suo ambiente vitale. Riferendosi alla sua salute, indulge all’umorismo: Veniamo al mio asinello, come hiamavalo S. Francesco. Qui il suolo, essendo anche favorevole la stagione, non fa trovare che fuoco; si respira fuoco nell’aria, si assorbisce fuoco nei bagni, si calpesta fuoco nella terra. Perciò sperimento una prostrazione singolare di forze ed un profluvio di sudore straordinario. Nell’ottobre del 1878 la salute abbandonò definitivamente il Santo Pastore. Alla prostrazione fisica si aggiunse anche la prostrazione morale, causata dall’alluvione che tra il 13 e il 14 ottobre allagò la città dalla piazza Principe Umberto al Camposanto. Il disastro fu grande e si ripercosse enormemente sul cuore del Vescovo infermo. Il Vescovo di Grenoble Monsignor Giuseppe Fava, che non nutriva eccessiva stima per la Melania Calvat venne a Castellammare per riportare in Francia la veggente e perciò pretendeva che il Vescovo diocesano imponesse alla figlia spirituale di ritornare in Francia. Mons. Petagna aveva due vicarii di Gesù: uno esterno, il Papa, ed uno interno, la coscienza; perciò alla pretesa rispose con parole sublimi. Monsignore, il Signore mi ha mandato Suor Maria della Croce (cioè Melania Calvat); io L’ho ringraziato ogni giorno. Dio non ha mai fatto degli schiavi. È per questo che nella mia diocesi lei è libera; è perciò che io non prenderò la responsabilità di comandarle di andarsene da qui. Il grande devoto della Madonna completava così la sua battaglia in difesa dell’Apparizione della Vergine sulla montagna di la Salette, in diocesi Grenoble. Ora lo zelante ed indomito Pastore poteva intonare il Nunc dimittis. La Madonna l’attendeva sulla soglia del Paradiso e lì l’abbracciò il mattino di mercoledì 18 dicembre 1878 alle ore 5. 13. Mentre a Castellammare pioveva a dirotto in Paradiso si accendeva un nuovo astro. Come l’immagine dell’Addolorata entrò nella stanza mortuaria la sorella Teresa, unica superstite di famiglia.
Questa vergine era stata come l’anima che tutto vivifica, ma non si vede. Lei baciò con devozione la mano, che aveva impartito tante benedizioni, e si eclissò, rifugiandosi nel Cuore di Gesù. La sera dello stesso giorno della morte del tanto amato fratello, la signorina Teresa fu accolta dalla suore Stimmatine tra le quali morì quindici anni dopo. Come Gesù, l’umile e dolce creatura poteva dire: Non ho dove posare il capo. Il grande Vescovo era ricco solo di fede e di amore, di quell’amore che lo spogliò di tutto. Nell’elogio funebre Don Lorenzo De Gregorio poté esclamare, tra la commozione dei fedeli: “Monsignor Francesco Saverio Petagna ha amministrato rendite non comuni, da potere, se avesse voluto, lasciare ricco patrimonio dopo la vita. Invece egli è morto, privo di tutto, rimanendo derelitta la sorella ed avendo bisogno di chi s’occupasse dei suoi funerali. Monsignor Petagna era come l’arcobaleno nel quale spicca con eguale intensità la gamma di tutti i colori. In questo splendido arcobaleno delle virtù, i fedeli, nell’ora della sua morte, rimasero affascinati dal colore della povertà che richiamava al vivo quella che rifulse alla morte di S. Francesco d’Assisi. Don Vincenzo Criscuolo, testimone oculare, poté affermare: Nella malattia ultima del Vescovo, non avendo come provvedere allo scarso alimento e ai necessari medicinali, si chiedeva dai suoi familiari qualche lira a ciascun de’ Canonici che frequentemente lo visitavano. Lui beato! Era vissuto povero perché tutto aveva dato quanto aveva, e da povero volle morire. Non gli restava che la vita, e questa con la pace dei giusti nel cuore e col sorriso degli angeli sul labbro, a Dio la dette, a Dio sacrificandola la notte del 18 dicembre 1878, per amore di coloro che, nel giro di sei lustri, teneramente amò e largamente soccorse. O Angelo di carità! O Vescovo dotto e pio, la tua memoria sarà benedetta in eterno. Alla venerata salma, per ben quattro giorni, furono rese solenni onoranze che risulteranno un trionfo di gloria e di onore. Un fenomeno forse unico nella storia: i più fervorosi devoti del nostro Servo di Dio sono stati i suoi immediati successori, i vescovi Sarnelli e De Jorio. Paolo Pisacane si è divertito nel mettere a confronto le date della vita del nostro Pastore con le date storiche della sua epoca.
Vive il Servo di Dio Petagna in età risorgimentale. Nasce due anni prima che iniziasse i suoi lavori il Congresso di Vienna, muore undici mesi dopo Vittorio Emanuele II. Ha otto anni all’epoca dei moti napoletani del 1820; diciotto e diciannove quando in Francia Carlo X viene cacciato e sale sul trono Luigi Filippo d’Orleans (1830), quando si ha la rivoluzione in Belgio e in Polonia e durante i moti carbonari a Modena e negli Stati vicini (1831). Vive da sacerdote il 1848 e il 1849, è già vescovo da due anni quando Cavour diventa Presidente del Consiglio (1852). Segue gli eventi che porteranno all’unità d’Italia con trepidazione per il diffondersi d’una tendenza anticlericale, risente le conseguenze della spedizione dei Mille guidata da Garibaldi. È in esilio dal gennaio 1861 al dicembre 1866; a Marsiglia fino al 13 ottobre 1865, poi a Roma. È ritornato nella sua Diocesi di Castellammare di Stabia, è presente al Concilio Vaticano I, quando tramonta il potere temporale del Papa con la presa di Roma del 20 settembre 1870. Il nostro Servo di Dio è un astro che brilla su un maremoto.